Gli errori che hanno vinto
Gli errori di scrittura si combattevano già secoli fa. Spesso però la forma corretta ha perso. Perché la lingua è viva e si evolve attraverso gli sbagli. Come una persona con la sua storia di vita.
Quelli di noi che amano la lingua italiana forse si arrabbiano un po’ quando sentono (o leggono) certi strafalcioni che fanno rizzare i capelli, non solo sui rapidi sms affollati di k, ma ormai sui più svariati media, giornali compresi.
Il fatto è che la lingua è come una persona: è viva e quindi cambia continuamente.
Capita per effetto degli incontri che fa, delle nuove esperienze.
Cambia perché dimentica cose del passato e ne impara di nuove. Ha bisogno di parole nuove per esprimere nuovi sentimenti o per descrivere oggetti che non aveva mai visto prima.
Proprio come succede a noi che col passare del tempo ci trasformiamo, continuamente e spesso senza rendercene conto.
Prima di arrabbiarsi per certi errori che si diffondono a macchia d’olio vale la pena riflettere.
Noi “puristi” solitamente ci guardiamo intorno sgomenti chiedendoci:
“Ma come mai nessuno dice niente?”
Ci capita un po’ come al protagonista di una bellissima opera teatrale dell’assurdo, Rinoceronti di Ionesco (che caldamente consiglio di vedere o di leggere).
Attorno a noi sempre più gente diventa rinoceronte – nel nostro caso usa la parola errata – finché restiamo solo noi a combattere la battaglia per una forma corretta che nessuno usa più.
Arriva persino il momento in cui ci viene il dubbio: com’è che si scriveva?
È una forma d’ansia che mi prende per esempio notando che sempre di più l’accento su è sia diventato, dappertutto, un apostrofo.
Dal sacchetto dei biscottini ai cartelloni pubblicitari, tanto che mi emoziono un po’ (qui ci va l’apostrofo, non l’accento) quando mi imbatto nelle rare scritte in cui ancora leggo la forma corretta.
C’è però qualcosa che può essere utile sapere. Non so se consoli o se spinga alla rassegnazione, ma di sicuro ci dà una prospettiva più ampia. Ci libera dalla divisione netta tra giusto e sbagliato che ci rende sempre un po’ arroganti.
Attorno al III secolo d.C. fu scritto a Roma un libro che gli studiosi hanno chiamato Appendix Probi.
Una parte di questo libro era dedicata ad un elenco di 227 parole sbagliate che si stavano diffondendo tra i giovani. Il libro indicava la forma corretta corrispondente.
Si trattava di espressioni sbagliate perché volgari (cioè popolari, distorte, nuove).
Probabilmente era l’elenco di un maestro che lo destinava ai suoi scolari.
Egli li avvertiva: “auris non oricla”… E invece hanno stravinto gli scolari con il loro errore.
La forma che si sviluppò fino a noi è proprio quella sbagliata.
Diciamo “orecchia” in Italia, “oreille” in francese, “oreja” in spagnolo e così via in tutte le terre dove si diffuse il latino.
Alla faccia dell’errore.
Avvertiva ancora il maestro: “vetulus non veclus”. Anche qui, brutte notizie per l’insegnante, se pensiamo a come si dice oggi “vecchio”: una parola derivata proprio dalla forma sbagliata.
Insomma, se quando vedo scritto “tutto apposto” attaccato mi sento male, mi ricordo che molte parole come “appena” oggi sono giuste scritte attaccate, ma una volta erano un errore.
Forse bisogna lasciare che la lingua vada dove la porta il volgo, come ha sempre fatto.
Certo, se leggessimo un po’ di più non scriveremmo le parole per come le sentiamo “a orecchio” ma per come le abbiamo viste scritte.
L’italiano ha una grammatica e delle norme e va bene che è una lingua viva ma amiamola almeno un pochino senza strapazzarla troppo.
Questo per dire, imitando il maestro del III secolo: “si scrive cioè, non c’è”.
Ho visto pure questo.
Ai posteri l’ardua sentenza.