Lo scrittore contadino
Un antico indovinello ci svela che se scriviamo, diventiamo agricoltori. Fisicamente! Cosa c’entrano i buoi con gli appunti che prendiamo? E con le storie su misura che scriviamo?
Vi sfido con un indovinello che ha la bellezza di 1200 anni.
Parla di agricoltura, ma solo in apparenza.
E ci svela che c’è un legame stretto tra un giogo di buoi e uno scrittore.
Chiunque abbia preso in mano una penna, dai temi delle elementari a Umberto Eco, sa cos’è quell’ansia che ti prende davanti alla pagina bianca.
Davanti a noi quell’immenso campo bianco tutto da lavorare, su cui speriamo di seminare qualcosa di buono e vederne poi i frutti.
Scrivere è faticoso, è un po’ come coltivare la terra.
In senso metaforico, pensate voi. No, anche fisico.
Vi capita di fare piccole scoperte che vi riempiano di entusiasmo come bambini? Che ne so, scoprire perché si dice “piantare in asso”, per esempio, e aver voglia di condividere con tutti la vostra conquista culturale?
Oggi facciamo che siamo a cena insieme, voi ed io. Invece di intrattenerci a commentare l’ultima puntata di “Uomini e Donne”, ci raccontiamo le nostre scoperte. Voi siete i benvenuti nei commenti.
Io voglio condividere, felice come una bimbetta, qualcosa che ho scoperto anni fa che trovo davvero magnifico. Letteralmente.
Sappiamo tutti che l’italiano deriva in gran parte dal latino. Ora, quando i simpatici Romani conquistarono “il mondo”, in ogni terra conquistata la gente parlava già, ovvio.
In Portogallo si parlava una lingua diversa dalla Provenza, in Italia una diversa (anzi, tante diverse) dalla Francia, in Sardegna diversa dalla Romania.
Il latino portato dai Romani si mescolò con le lingue che si parlavano fino a quel momento, e dal “miscuglio” e dalla storia successiva si sono sviluppate lingue diverse in ognuno di questi luoghi.
Ma quand’è che è nato l‘italiano? O il portoghese, il rumeno, il sardo o il francese?
Ovviamente non fu un momento preciso, come schioccare le dita.
Negli scritti in latino hanno cominciato a comparire espressioni “guastate”, “volgari”, cioè popolari. Erano i primi segni che delle lingue nuove stavano nascendo.
Il primo documento con tracce di italiano si chiama Indovinello Veronese ed è proprio un simpatico indovinello che suona così:
Boves se pareba/ e albo versorio teneba, / alba pratalia areba/ e negro semen semineba.
Tradotto sarebbe: Metteva avanti a sé i buoi, e spingeva un aratro bianco, arava campi bianchi e seminava un seme nero.
Taglio corto e vi do la soluzione. È la mano di chi scrive.
I buoi sono le due dita, l’aratro è la piuma che allora si usava, i campi bianchi sono il foglio e il seme l’inchiostro.
Ed è già meraviglioso così. Ma quello che mi fa impazzire è un’altra cosa.
Nell’antichità non si scriveva tutte le righe da sinistra a destra, nemmeno in occidente.
Arrivati a fine riga a destra, si scriveva la riga sotto partendo da destra, e così via. “A nastro”, per così dire.
E lo sapete come si chiama questo modo di scrivere?
“Bustrofedico“, cioè simile all’andamento dei buoi che arano! (Mi controllo a stento dall’impulso di coprirvi di punti esclamativi).
Ecco che il nostro Indovinello Veronese acquista ancora più sostanza e il nostro cervellino si sazia e si rallegra.
Ed io mi sazio e mi rallegro all’idea di poter scrivere, di coltivare.
Gettare il seme nero dell’inchiostro sperando che non voli via subito, ma tocchi nel profondo chi legge un mio libro che parla di lui.
Che produca alberi ombrosi, per andare un po’ via dalla realtà a vivere un’altra storia impossibile.
Scruto il cielo e spero che la mia faticosa aratura, la semina e tutte le potature diano frutti buoni.
Che chi riceve un libro di Alia Verba si senta amato, importante, unico come quel libro.
I contadini sono così.